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270 | capitolo quinto. |
Jeanne sospettò di esserne involontariamente in colpa. Se nel bollore della passione Piero le aveva parlato del lago come la notte dell’eclissi, sui colli, adesso invece i vapori del rimorso gli suggerivano forse di star lontano dalla casa di suo padre e di sua madre, dove si sarebbero fatti più neri e acri. Lo incalzò di domande, d’istanze, volendo strappargli qualche espressione dell’ingiusto sentimento, che le permettesse di lottare apertamente con esso. Non le riuscì. Giunse a pregarlo, con parole di tenerezza e di riverenza per le memorie a lui sacre. Egli la ringraziò affettuosamente e troncò il discorso.
Sulle prime neppure voleva saperne di andare a Brescia. Meditava un viaggio in Francia e nel Belgio, a scopo di studiarvi certe società cooperative di produzione, le case fondate da Leclaire e da Godin, il Vooruit di Gand, non alieno dall’indossarvi per qualche tempo, se occorresse, le blusa dell’operaio. Non tenendosi ancora sufficientemente preparato a questo viaggio, finì con piegare e partì per Brescia. Aveva scritto, dopo la partenza, tre volte e l’ultima sua lettera era veramente in colpa degli occhi rossi di Jeanne.
Ella scese per questa gran vendemmia di fiori nel viale che corre diritto fra una lunga riga di thuje e le spalliere delle rose aggrappate a quel fianco della Foresteria, che guarda la valle del Si-