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122 | capitolo terzo. |
non fosse necessario ricevere i consiglieri in quell’augusta e sacra stanza, dove, grazie al pepe, alla canfora, alle prolisse camicie di tela turchina e alle tenebre perpetue, seggiole, poltrone, canapè, tavolini, specchi, vasi, candelabri, pendola e fiori di carta, entrativi per le nozze dei suoi defunti suoceri Záupa, serbavano ancora la freschezza del 1815.
“La porta pazienza, mama, la sia bona„, ripeteva l’omino, mellifluo; e brontolò invece alla sposa: “Carèghe! Andèmo!„ La mansueta creatura e il donnone cominciarono a portar dentro sedie. Alla quinta sedia la vecchia signora sbuffò: “Ma quanti mai xeli, po, sti b.......?„
“Sedese, mama, se i vien tuti„, rispose il figliuolo mansueto, ingoiando con una smorfia l’appellativo ingiurioso e la propria complicità in esso.
“Mi digo, sior, che faressi megio a tender al vostro mezà, con tuti quei tosi; che zà gnanca in Paradiso per el scalon del Municipio no ghe andè„.
La vecchia diede le spalle a quelle fastidiose novità della sua casa e brontolando “no ghe andè, no ghe andè„ si allontanò. Subito la esangue signora Záupa juniore osò metter fuori la sua voce flebile per osservare a Matìo ch’era presto, ch’erano appena le due e mezzo; il donnone alzò una tendina della finestra, sorrise alla fruttivendola di faccia;