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60 | capitolo iii |
Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell’improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna; ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perchè la scena gli paresse degna dell’attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perchè avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe.
«Bela massima» diss’egli. «Speremo in Domeneddio. Sissignor. Ma la me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentia parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, e adesso la me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà. El mondo d’adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l’ano.»
«Senta, caro signor Giacomo» osservò l’inge-