Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
56 | capitolo iii |
cominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!» E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l’ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d’impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell’ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso «in che compagnia sono!» perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così...».
Qui l’ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «basta, basta, la scusa, son qua, vegno, no la se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, ela conosse el mondo, mi lo go conossudo ma no lo conosso più».
Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto