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528 parte iii - capitolo ii

«Mica per giuoco, ma insomma.....! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vapore austriaco da guerra «Radetzki» detto dai riverani piemontesi «Radescòn.» «Entra adesso nel porto di Laveno» disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli Strobus, posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli Strobus, si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche sino alla lista nera delle colline d’Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane dello Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L’albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyères blanches portano fortuna», diss’egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. «Vecchio strobus», diss’egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l’entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui.

Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l’uomo savio, l’uomo giusto, il benefattore de’ suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l’appello, egli aveva risposto.

I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l’avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell’era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l’uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all’ultimo momento, senza saperlo, da quell’ignoto prete dell’Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno.


FINE