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46 | capitolo ii |
impressioni vivaci, gl’impeti della sua natura leale, ferita da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d’ogni contraddizione e incapace di infingersi.
Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all’uscio. La signora marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan l’obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto atteggiamento e quale nell’ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole «Ave Maria, gratia plena» con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovine andò a cacciarsi in un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose.
Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le sacramentali parole:
«Carlotta, Friend.»
Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l’incarico di pigliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire.
«È qui, signora marchesa», disse Carlotta.