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480 | parte iii - capitolo i |
Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guardie, che tacevano, di una prossima passeggiata militare a Torino. Il signor Giacomo Puttini non s’era più riavuto bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell’avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dalla fine comica del «marsinon», avea perduto ogni stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del 59 il Paolin, tedescone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritissimo», gli disse l’ometto. «Mi son nato sotto San Marco, gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo star; podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio sott’ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in ordine l’uniforme con l’idea di presentarsi all’imperatore dei francesi quando venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo:
Stare nostre crante ulane
Qua fenute d’Ungheria,
Ma franzose crante....!,
Fato tuti scappar fia!
E don Giuseppe; tutto spaventato: «Citto, citto, citto!»