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42 | capitolo ii |
Da l’orror di quest’ombre ti figura
L’amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l’alto balcon già non rimiri
Le bianche plaghe d’occidente, i chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l’astro; ma quest’una
Tenebra esplori, l’aura interrogando
Vocal che va tra i mobili oleandri
De la terrazza e freme il nome mio.
Forse piaceva a Franco d’improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l’era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall’organista di Loggio, perchè il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell’organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnìo sottile come d’infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l’estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l’idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta.
Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse