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420 parte ii - capitolo xi

sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse l’uscio.

Era aperto.

Entrò dal fresco della notte in un’afa pesante, in un odore strano di aceto bruciato e d’incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall’alto. Giunto là vide che la luce usciva dalla camera dell’alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio. L’uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l’odor d’incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento, non poté avanzare. Dalla parte dell’alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta: «Vuoi che venga anch’io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la tua mamma, in terra con te?». «Luisa! Luisa!» singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccia l’uno dell’altro, sulla soglia della loro camera nuziale che aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto.

«Vieni, caro, vieni vieni vieni», diss’ella e lo trasse dentro.

Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea fragrans e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tanto caro a lei perchè