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412 | parte ii - capitolo xi |
medico e dalla mamma, immaginò in un minuto lunghe lunghe ore al suo capezzale, lunghe angosce, il rinascer della speranza, il primo sussurro della dolce voce:
«Papà mio».
Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo muto di preghiera. Poi ricadde a sedere esausto, volse gli occhi senza sguardo alla campagna fuggente, sentendo quasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme all’orizzonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, assopito, nell’anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo toglieva dal suo torpore suggerendogli l’idea di una corsa angosciosa, richiamando il suo cuore a correre, a batter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglio arrivare a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuore alle palpebre, ma si muovevano, mutavano continuamente, non poteva arrestarle più d’un momento. Era Luisa che gli correva incontro sulle scale, era lo zio che gli stendeva le braccia sull’entrata della sala, era il dottore Aliprandi che gli apriva l’uscio dell’alcova e gli diceva «bene bene» era, nella camera buia, un moto di ombre silenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi lucidi di febbre.
A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da Torino, l’impero della realtà lo riprese. Quando sarebbe a Lugano, come, per qual via andrebbe a Oria? Scopertamente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? E se non lo lasciassero pas-