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410 | parte ii - capitolo xi |
a Torino in condizioni dure e oscure. Dina credeva ch’egli avesse intenzione di offrirgli un impiego al Ministero degli Esteri. Ora Franco doveva partire, certo. La bambina guarirebbe ed egli ritornerebbe nel più breve tempo possibile. Intanto si fermerebbe a Lugano, non è vero? in attesa di notizie; e se non fosse proprio necessario non si arrischierebbe mica di entrar in Lombardia. Con quest’affare di Vall’Intelvi sarebbe un’imprudenza enorme. Franco tacque e il suo direttore, nel congedarlo, insistette: «Abbia prudenza! Non si lasci prendere!» ma non ebbe alcuna risposta.
Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma, Franco aveva camminato su e giù per Torino come in sogno, senza udire il suono dei propri passi, senza coscienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andando macchinalmente dove gli occorreva, in quella congiuntura, di andare, dove lo portava una facoltà inferiore e servile dell’anima, quel misto di ragione e d’istinto che ci sa guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentre lo spirito nostro, fisso in un problema o in una passione, niente se ne cura. Vendette orologio e catena per centotrentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperò una bambola per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caffè Florio per far avvertire gli amici e, dovendo pigliar il treno delle undici e mezzo per Novara, fu alla stazione alle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Padovano e l’Udinese. Essi cercarono di rincorarlo con ogni