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352 | parte ii - capitolo ix |
là là», diss’egli riprendendosi con rassegnazione il suo primo volume della Somma, «ca s’raccomanda al Signour e sperouma ca fassa Chiel.» Così finirono gli studi teologici di Franco.
Tanto meditare sulle idee di sua moglie e sulle proprie, e soprattutto il consiglio del professore «ca s’raccomanda al Signour» non furono senza frutto. Cominciò a intendere che in qualche cosa Luisa non aveva torto. Rimproverato da lei di non condurre la vita che secondo la sua fede avrebbe dovuto, egli s’era offeso di ciò più che di tutto il resto. Adesso un generoso slancio lo portò all’altro estremo, a giudicarsi sinistramente, a esagerare le proprie colpe d’accidia, d’ira e persin di gola, a tenersi responsabile delle aberrazioni intellettuali di Luisa. E provò una smania di dirlo, di umiliarsi davanti a lei, di separar la causa propria dalla causa di Dio. Quando ebbe il posto all’Opinione e regolò le proprie spese per poter fare un assegno alla famiglia, sua moglie gli scrisse che l’assegno era assolutamente troppo forte in proporzione dei suoi guadagni. Il saper ch’egli viveva a Torino con sessanta lire il mese le rendeva amaro il cibo a lei. Allora egli le rispose, questo non proprio sinceramente, che, anzi tutto, non pativa mai la fame; che, del resto, sarebbe stato felice anche di digiunare perché provava un’avidità intensa di mutar vita, di espiar gli ozi passati, compreso il soverchio tempo dato ai fiori e alla musica, di espiar tutte le passate mollezze, tutte le debolezze, comprese