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per il pane, per l'italia, per dio | 349 |
cellente quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sapienti, per una ragione o per l’altra, non passavano la sera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano, a far musica, a conversare d’arte con le signorine, a disputar di politica con la signora, una fiera patriota veneziana di grande ingegno e d’animo antico, che aveva tutte eroicamente affrontate le durezze e le amarezze dell’esilio, incuorando il marito i cui primi passi erano stati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissimo professore dell’Università di Padova, le care, benedette teste oneste e dure della rigida amministrazione piemontese avevano imposto di subire un esame se voleva diventare capitano medico, niente meno.
La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva liscia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da una parte e dall’altra. Luisa si era figurata che Franco avrebbe risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grande argomento. Non vedendo che parlasse mai né della letterina né di ciò ch’era stato fra loro quell’ultima notte, arrischiò un’allusione. Non fu raccolta. In fatto Franco s’era messo più volte a scrivere col proposito di affrontare le idee di sua moglie. Prima di scrivere si sentiva forte, si teneva sicuro che pensandoci avrebbe trovato facilmente argomenti vittoriosi; gliene venivano anche alla penna di quelli che gli sembravan tali ma poi, quand’erano scritti, ne scopriva subito