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per il pane, per l'italia, per dio 347

Gli altri vivevano con miserabili assegni delle loro famiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti allegri. Si chiamavano e si facevano chiamare «i sette sapienti». Dominavano Torino, nella loro sapienza, dall’alto di sette soffitte sparse per tutta la città da Borgo San Dalmazzo a Piazza Milano.

La più misera era quella di Franco che la pagava sette lire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella del portinaio di casa portava l’acqua nella soffitta, nessuno della compagnia si faceva del tutto servire; e il Padovano avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tormentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico filosofo ch’era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il più destro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare i bottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricorrendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto, certe volte, «o mi povra dona!», ne vedeva capitare una processione. L’Udinese aveva bene un’amante, una piccola «tota» del primo baraccone di piazza Castello sull’angolo di Po; ma era geloso e non permetteva che attaccasse bottoni a nessuno. Gli amici se ne vendicavano chiamandola «tota bürattina» perché vendeva fantocci e bambole. Egli era del resto, grazie a «tota burattina», il solo della compagnia che avesse gli abiti sempre in ordine e la cravatta annodata con una grazia speciale. A mangiare andavano in una trattoria di Vanchiglia battezzata «la trattoria del mal de stomi» dove per trenta lire il mese avevano colazione e