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346 | parte ii - capitolo ix |
durre assai laborioso per un uomo come lui pieno di scrupoli e di timidità letterarie, gli pesavano più delle privazioni; e sessanta lire gli parevano ancora troppe, si rimproverava di non saper vivere con meno.
Si era legato con altri sei emigrati, parte lombardi parte veneti. Mangiavano insieme, passeggiavano insieme, disputavano insieme. Meno Franco e un Udinese, gli altri erano fra i trenta e i quarant’anni. Tutti poverissimi, non avevano mai voluto pigliar un soldo dal governo piemontese a titolo di sussidio. L’Udinese che apparteneva ad una famiglia ricca e austriacante e da casa non riceveva niente, conosceva bene il flauto, dava quattro o cinque lezioni la settimana e suonava nelle orchestrine dei teatri di commedia. Un notaio padovano copiava nello studio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco, soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grande negozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gli amici lo chiamavano il «Fante di bastoni». Un quarto, milanese, aveva fatto la campagna del ’48 nelle guide di Carlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria meneghína il Padovano gli aveva posto nome «Caval di spade». La professione del Caval di spade era quella di litigare continuamente col Fante di bastoni per antagonismo di provincia, d’insegnare la scherma in due convitti, e, l’inverno, di suonare il piano dietro una cortina misteriosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldi l’una.