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ore amare 341

cida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell’alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all’avvenire incerto, precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio.

Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell’usciolino, guardò quell’uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole.

Quando approdarono si voltò a sua moglie. «Esci anche tu?» Ella rispose: «Se credi». Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. «Guarda», disse Luisa, «che nella borsa troverai da far colazione.» Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. «Fa che Maria», disse Franco, «mi perdoni d'esser partito così», e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, «presto, presto!». La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza.