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ore amare | 339 |
darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello.
La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca.
Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla «di viaggio» passava sotto il muro dell’orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la «Zocca de Mainé», la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c’era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava.
«Vieni a Porlezza per le carte del notaio», diss’egli, «o proprio per accompagnar me?»
«Anche questo!», mormorò Luisa, tristemente. «Ho voluto esser leale con te fino all’estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, oramai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!»
«Non farmi abbassare!», esclamò Franco. «Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio, come siamo diversi! Tu sei sempre