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ore amare 317

indipendente e molto rispettata. Una parola tua, e tu sei ascoltante al Tribunale.»

«Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu... e tu... e tu...»

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l’invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quell’ultima apostrofe sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi.

«Fèrmati!», esclamò. «Che maniera è questa?»

«Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un momento!», diss’egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non è un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!»

Franco, ch’era già presso all’uscio, si fermò, tramortito dal colpo. «Che testamento?», diss’egli.