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capitolo i

tempo, la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sè. Le era già di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l’aria di sentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, una torbida Ungheria.

Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell’abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini econome.

«E questo signor Giacomo, Controllore?» disse ella, senza muoversi.

«Temo, marchesa» rispose Pasotti. «L’ho incontrato stamattina e gli ho detto: — dunque, signor Giacomo, ci vediamo a pranzo? — È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: — Sì, credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propriamente, Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff! — Non ne ho cavato altro.»

La marchesa chiamò a sè il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto, ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti.

La povera signora Barborin, avendo visto il do-