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256 | parte ii - capitolo vi |
cotto, andava brontolando al suo padrone: «che signore è mai Lei! Cosa vuol fare quì solo a casa?».
«Per dormire non ho bisogno di nessuno» rispose l’ingegnere «e se sono matti gli altri non sono matto io. Mettetemi qua il mio latte e il mio lume.»
Era la vigilia di Natale e l’idea pazza di quella gente savia, la risoluzione che pareva incredibile all’ingegnere era di andare a S. Mamette per assistervi alla messa solenne di mezzanotte.
«E quella povera vittima!» diss’egli guardando la bambina.
Franco diventò rosso, osservò che desiderava prepararle dei ricordi preziosi, questa partenza notturna in barca, il lago scuro, la neve, la chiesa piena di lumi e di gente, l’organo, i canti, la santità del Natale. Egli parlava con calore non tanto per lo zio, forse, quanto per un’altra persona che taceva.
«Sì sì sì sì» fece lo zio, come se si fosse aspettata questa rettorica, questa poesia buona a niente.
«Anch’io, sai, il punch!» gli disse la piccina. Lo zio sorrise: manco male! Quello sarà proprio un ricordo prezioso. Franco, sentendosi così demolire la sua sottile preparazione di ricordi religiosi e poetici, si fece scuro. «E questo Gilardoni?» chiese Luisa. «Sono qui adesso» fece Ismaele uscendo con la sua lanterna.
Il professore Gilardoni aveva invitato i Maironi