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252 | parte ii - capitolo v |
processo ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati il Governo si limitava a togliergli l’ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le accuse e colui l’aveva licenziato senza rispondere.
«E allora?» disse Franco.
«E allora...» Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale d’ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: «Siamo arcifritti, o Regina.»
Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. «Zio, zio» gli sussurrò «ho paura che sia stato per causa nostra!»
Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sè di qualche imprudenza.
«Sentite, cari amici» diss’egli con un tono bonario che aveva pure qualche recondito sapore di rimprovero «questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo, per poco tempo.» Franco e Luisa protestarono. «Ci vuol altro! Ci vuol altro!» fece lo zio agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole. «Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l’ho fatta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell’acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la si-