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20 | capitolo i |
pensò; e fu richiamato subito dalla signora Barborin che gli raccomandò di metterlesi vicino a tavola. Aveva tanta soggezione, povera creatura.
I fumi delle casseruole empivano anche la scala di tepide fragranze. «Risotto no» disse piano l’avanguardia. «Risotto sì» rispose sullo stesso tôno la retroguardia. E così continuarono, sempre più piano «risotto sì, risotto no» fino a che Pasotti spinse l’uscio della sala rossa, abituale soggiorno della padrona di casa.
Un brutto cagnolino smilzo trottò abbaiando incontro alla signora Barborin che cercava di sorridere mentre Pasotti metteva la sua faccia più ossequiosa e il curato, entrando ultimo con un faccione dolce dolce, mandava in cuor suo all’inferno la maledetta bestia.
«Friend! Qua! Friend!» disse placidamente la vecchia marchesa. «Cara signora, caro Controllore, curato.»
La grossa voce nasale parlava con la stessa flemma, con lo stesso tono agli ospiti e al cane. S’era alzata per la signora Barborin ma senza fare un passo dal canapè, e stava lì in piedi, una tozza figura dagli occhi spenti e tardi sotto la fronte marmorea e la perrucca nera che le si arrotondava in due grossi lumaconi sulle tempie. Il viso doveva essere stato bello un tempo e serbava, nel suo pallore giallastro di marmo antico, certa maestà fredda che non mutava mai, come lo sguardo, come la voce, per qualsiasi moto dell’animo. Il curatone le fece