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230 | parte ii - capitolo iv |
cercarono con le braccia avide, si afferrarono, si strinsero, non parlarono più.
Parlarono poi, in loggia, per due ore continue, di tutto che avevano visto, udito e provato, ritornando sempre alla sciabola, alle carte, alle monete, non senza fermarsi su tante inezie, sull’accento veneto che aveva l’aggiunto, sul gendarme bruno che pareva un buon diavolo e sul gendarme biondo che doveva essere un cane. Di quando in quando tacevano, gustavano il silenzio sicuro e la dolcezza della casa; poi ricominciavano. Prima di andar a letto uscirono sulla terrazza. La notte era scura e tepida, il lago immobile. L’afa, le tenebre, le forme vaghe, mostruose delle montagne pigliavano nella immaginazione una mortale pesantezza austriaca; l’aria stessa ne pareva grave. Non avevano sonno, nè Luisa nè Franco, ma conveniva pure andar a letto per la fantesca che vegliava Maria. Entrarono in camera in punta di piedi. La bambina dormiva, aveva il respiro quasi regolare. Cercarono di dormire anch’essi e non ci riuscirono. Non potevano a meno, specialmente Franco, di parlare. Egli domandava sottovoce: «dormi?» Ella rispondeva «no» e allora tornavano in campo le monete o le carte o la sciabola o lo sgherro dall’accento veneto. Oramai non erano più davvero cose nuove e siccome sull’alba Maria si agitava, dava segno di svegliarsi, avendo Franco sussurrato da capo «dormi?» Luisa rispose «sì» ed egli tacque definitivamente, come se ne fosse persuaso.