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226 | parte ii - capitolo iv |
che durante l’indecisione dell’aggiunto le aveva martellato a furia, si chetò come per miracolo. Ora ella era fredda, intrepida e pronta.
«Chi dorme qui?» le chiese l’aggiunto.
«Nessuno. Dormivano qui i genitori di mio zio che sono morti da quarant’anni. Dopo non vi ha più dormito nessuno.»
Nella camera v’erano due letti, un canapè, un cassettone. L’aggiunto accennò ai gendarmi di aprire il cassettone. Si provarono; era chiuso a chiave. «Debbo averla io, la chiave» disse Luisa con perfetta indifferenza. Discese accompagnata da un gendarme e risalì con un cestellino pieno di chiavi, lo porse all’aggiunto.
«Non la conosco» disse «non si adopera mai. Dev’essere una di queste.»
Colui le provò tutte inutilmente. Poi le provò il Ricevitore, poi Franco. La buona non c’era.
«Mandi a S. Mamette, faccia venire il fabbro» disse Luisa tranquillamente. Il Ricevitore guardò l’aggiunto come per dirgli: «mi pare inutile.» Ma l’aggiunto gli voltò le spalle ed esclamò volto a Luisa: «questa chiave ci dev’essere.»
Il cassettone, un vecchio mobile rococò, aveva maniglie di metallo ad ogni cassetto. Uno dei gendarmi, il più robusto, si provò di aprire a forza. Non gli riuscì nè col primo nè col secondo cassetto. In quel punto Luisa si risovvenne che aveva veduto la sciabola nel terzo, insieme a certi disegni arrotolati. Il gendarme afferrò le maniglie del