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222 | parte ii - capitolo iii |
pensato, lo zio, nella sua semplicità patriarcale, che quel ricordo di famiglia giacente da trentasei anni nel fondo d’un cassettone era pure diventato un arnese pericoloso e proibito? E Franco, Franco che non sapeva niente! Luisa teneva le mani sulla spalliera d’una seggiola; la seggiola scricchiolò tutta sotto una stretta convulsa; ell’alzò le mani, atterrita come se avesse parlato.
Vedeva il poliziotto passar di camera in camera con i suoi gendarmi, giungere a quella, aprire il cassettone, frugare, trovar la sciabola. Faceva ogni sforzo di ricordar il posto preciso dove l’aveva veduta, d’immaginar una via di scampo, e taceva seguendo con gli occhi, macchinalmente, la candela che un gendarme accostava, secondo i cenni del suo capo, ora ad un cassetto aperto, ora ad una cantoniera, ora ad un quadro che colui alzava per guardarvi dietro. Non le veniva in mente nessun rimedio. Se lo zio non aveva pensato di levar la sciabola, c’era solo da sperare che non si visitasse anche quella camera.
Franco appoggiato alla stufa, seguiva, scuro nella fronte, ogni atto di quella gente. Quando cacciavano le mani nei cassetti, gli si vedeva la collera nel giuoco muto delle mascelle. Non si udiva che qualche ordine tronco dell’aggiunto, qualche risposta sommessa dei gendarmi. Nulla si moveva intorno ad essi se non le loro grandi ombre traballanti per le pareti. Il silenzio del Ricevitore, di Franco e di Luisa pareva, in una sala di giuoco