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216 | parte ii - capitolo iii |
il suo solito. Il bel visetto, sempre accigliato nel sonno, era un po’ acceso, la respirazione un po’ frequente. Franco si spaventò, immaginò in un momento il morbillo, la scarlattina, il gastrico, l’infiammazione cerebrale. Luisa, più tranquilla, pensò ai vermi, preparò la santonina sul tavolino da notte. Poi padre e madre si coricarono senza rumore, spensero il lume, stettero ad ascoltar con pena il sottile respiro breve della piccina. Si assopirono e furono svegliati intorno alla mezzanotte, da Maria che piangeva. Accesero il lume e Maria si chetò, prese la santonina. Poi uscì da capo a piangere, volle esser portata nel letto grande, fra la mamma e il papà e in breve vi pigliò sonno; ma era un sonno inquieto, interrotto di pianti.
Franco tenne il lume acceso per poterla osservare meglio.
Pendevano, egli e sua moglie, sulla loro creatura quando all’uscio di strada furono precipitosamente battuti due colpi. Franco balzò a sedere sul letto. «Hai udito?» diss’egli.» Zitto!» fece Luisa afferrandogli un braccio e tendendo l’orecchio.
Due altri colpi, più forti. Franco esclamò: «la Polizia?» e saltò a terra. «Va, va!» supplicò lei, sotto voce. «Non lasciarti prendere! Passa dal cortiletto! Scavalca il muro!»
Egli non rispose, si vestì a mezzo, in furia, e si slanciò fuori della camera, risoluto di non lasciar volontariamente la sua Luisa, la sua Maria malata, sdegnoso del pericolo. Discese le scale a salti.