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156 | parte ii - capitolo i |
Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l’ingegnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole del Commissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addirittura; e l’idea di trovarsi a portata questo malfido servitore accendeva il suo zelo d’occhio regio e d’unghia imperiale. Si diede dell’asino per non averlo conosciuto prima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene; bene bene bene bene! «Lasci fare a me! Lasci fare a me, signor...»
Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero aveva impresso nell’acqua un anello, dolcemente, muovendosi appena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bacchetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altro anello più grosso; il sughero va pian piano sull’acqua, si ferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sughero cammina ancora per un piccol tratto, a fior d’acqua e sprofonda; zag! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta si torce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto. «Peppina, el gh’è!» grida il Carlàscia perdendo la testa, confondendo il sesso della tinca con quello dell’ingegnere in capo: «el guadèll, el guadèll!» Il sedentario si volta invidioso: «ghe l’ha, scior recitòr?» Il Cüstant si cuoce dentro e non fa motto nè volge la sua tuba. Ratì accorre e accorre anche la signora Peppina portando il «guadèll,» una pertica lunga con una gran borsa di rete in capo, per imborsarvi la tinca nell’acqua; chè il tirarla su di peso col filo sarebbe un rischio di-