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dose di mansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli aveva fatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto se ne potè accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello si mangiò il boccone Lombardia con l’amo e il filo e la bacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn, rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costituzionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudine, posando la bacchetta e pensando che si trattava di pescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli provò una singolare compiacenza non nel cuore, non nel cervello nè in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo particolare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non aveva coscienza di sè come di un organismo distinto dall’organismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccola dogana di frontiera, si considerava una punta d’unghia in capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi si considerava un occhiolino microscopico sotto l’unghia. La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le facevano il solletico sulla pelle della Gallizia, egli ne sentiva il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloria dell’Austria gl'ispiravano un orgoglio smisurato. Non ammetteva che il Brasile fosse più esteso dell’Impero Austriaco, nè che la Cina fosse più popolata, nè che l’Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, nè che Domeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddio era l’Imperatore; rispettava quello del cielo come un alleato di quello di Vienna.