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roni eran più belle? Anche le vainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?

«I gesümin?» fece la signora Peppina. «Ma el sür Mairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, cara lü!»

Così il Commissario venne a sapere molto naturalmente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito. «Vorrei vedere le dalie di don Franco» diss’egli. La ingenua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribera quel giorno stesso: «gavarissen inscì mai piasè!» Ma il Commissario espresse il desiderio di attendere la venuta dell’I. R. ingegnere in capo della provincia per avere occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «eccola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il mastino, umiliato da quell’arte superiore, desiderando mostrar in qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anche lui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall’annaffiatoio e lo presentò:

«Mio nipote. Figlio d’una mia sorella maritata a Bergamo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l’onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito.»

«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù, ch’el se figura!» interloquì la zia.

«Citto, Lei!» fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Dì un po’ su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?»