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e austero il viso come per una unione sacramentale col monarca. Questo ufficio era un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le inferriate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva che aveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commissario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l’uscio chiuso che dall’approdo metteva nell’anticamera; quello che dall’anticamera metteva nell’ufficio era rimasto aperto, per ordine suo.

«Mi parli del signor Maironi» diss’egli.

«Sorvegliato sempre» rispose il Biancòn. «Anssi «soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa» aspetti: ci ho quì un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a palpar fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.

«Manderà, manderà» fece il Commissario che non si aspettava molto dalla prosa del bestione.

«Intanto parli, dica!»

«Malintensionato sempre, questo si sapeva» ricominciò l’eloquente Ricevitore «e adesso anche si vede. Si è messo a portare quella barba, sa, quella mosca, quella moschetta, quel pisso, quella porcheria....»

«Scusi» fece il Commissario. «Vede, io sono ancora nuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un’idea esatta dell’uomo e della famiglia non l’ho ancora. Bisogna che Lei me li descriva proprio a fondo così come può. E incominciamo pure da lui.»

«Lui è un superbo, un furioso, un prepotentone. Avrà attaccato lite cinquanta volte, quì, per