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figliuoli, che della guerra sono le vittime più dolorose.
Hanno sofferto, nei mesi dell’esilio, angosce, tribolazioni, torture infinite, ma ora gioiscono, ora si rallegrano tutti per il profumo dei fiori, per le note della Marcia Reale squillanti sotto la tettoia della prima stazione italiana in cui si fermano, e per lo sventolare delle bandiere tricolori — le nostre bandiere, finalmente! — e per i dolci, e per i piccoli doni offerti loro con mani tremanti.
Si, tanta serenità viene dalla coscienza di avere compiuto verso la Patria il più alto dovere; ma questi martiri sentono certo, sia pure confusamente, che il loro sacrifizio frutterà un bene più grande ancora della vittoria oramai vicina: un bene che oltrepassa il nostro tempo, e sarà per i nostri figli e per i figli dei figli, puro come il dolore, eterno come la giustizia per cui hanno combattuto.
Già il dolore ci ha uniti tutti, come non mai prima d’ora.
L’avete provato anche voi, non è vero? Possono uscirci di mente i compagni coi quali s’è riso e cantato; ma quando si sono divisi patimenti, ansie, pericoli, si resta amici per sempre, per la vita e per la morte.
La fratellanza che troppo spesso, nella pace, nel benessere, abbiamo dimenticata, è tanto naturale in vece, e tanto dolce, quando si piange insieme!
Un giorno nel viale d’un cimitero, due madri s’incontrarono, una povera cucitrice, con la pezzuola nera in capo, ed una gran signora, col lungo velo di crespo al cappello: fecero strada insieme e si raccontarono il loro dolore.
— Vengo qui, tanto per recitare un requiem, — disse la cucitrice: — ma il mio figliuolo è in un piccolo cimitero di montagna, dove anche adesso