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che quelli del piacere; altre cure, che le cure della toilette; altri turbamenti, che quelli dei desiderii non per anco soddisfatti; altre sensazioni, in una parola, che le sensazioni diverse che accompagnano il compimento delle imprese della vita elegante, della vita delle feste, dell’esistenza dei favoriti della fortuna e della natura. Ora, questa sultana dei saloni aristocratici subiva, da ventiquattro ore, i dolori più strazianti, le ferite più spietate cui potevano infliggere il denigramento, il rimorso, l’insulto, l’ignominia.

Ella era sottostata al racconto di Marco di Beauvois; al perdono di suo marito; al disdegno freddo di suo cognato; alla vista commovente delle sofferenze di Alberto Dehal; a Sergio — il quale l’aveva perfino richiesta di dettagli sullo stato del suo antico rivale, quasi e’ fosse stato uno straniero! Ella aveva sofferto l’insonnio della notte; la battaglia del cuore che consigliavale di rivelar tutto a suo marito; lo stoicismo ateo del dottore di Nubo, il quale aveva riso il mattino di tutte quelle corbellerie; e l’incontro col principe, cui ella aveva dovuto vedere quel giorno istesso per informarlo di tutto ciò che era avvenuto.

Il principe sapeva tutto di già.

Regina era abbattuta. Ella bruciava dei fuochi della febbre. I suoi pensieri s’infrangevano sotto il suo cranio come i cavalloni corrucciati della tempesta addentano il lido.

Rientrando, alle cinque, un messaggiero portò una lettera per suo marito. Ella la prese e gliela recò.

— Vien dal giornale — disse Sergio scorgendola. Leggila.

Regina lesse:

«Non abbiamo seppure una linea di manoscritto per domani. Ce ne occorre ad ogni costo. La fine, la fine, la fine ad ogni modo.»

— Ebreo errante, marcia! — gridò Sergio poggiando il capo sul guanciale.

— Andiamo, amico mio — ripetè Regina — un po’ di coraggio. Vuoi tu che io scriva sotto la tua dettatura? Puoi tu dettare?

— Che ne so io? La mia testa se ne va.

— Prova, amico mio, vediamo, io sono qui. Se non puoi, cesseremo.