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— Sapete voi chi è la fanciulla, cui il vostro Sergio di Linsac à rapita la notte scorsa?
— Rapita?
— Sì, rapita, e con cui egli corre le grandi strade in questo istante?
— Nominatemela.
— Mia nipote.
Augusta saltò dal suo canapè e levossi in piedi, il viso pallido, gli occhi spalancati.
— Sì, mia nipote se n’è ita la notte scorsa — rispose il dottore.
— Ma in questo caso...
— Ma, in questo caso, come io non ò nulla a farmi del vostro poeta, ed abbisogno di mia nipote, io conto che voi agirete con prudenza e non bruscherete le cose, per non perder tutto irreparabilmente.
— Io perdo la bussola! sclamò Augusta ricadendo affranta sul canapè.
— Prestatemi il vostro principe di Lavandall.
— Impossibile. Voi lo sapete: egli è la mia provvidenza.
— Io v’ò detto: prestatemi il principe.
— No. Vi sono dei prestiti che non si ricuperano mai più.
— Voi sapete, belloccia mia, che io lo conosco, che lo incontro presso i ministri, nelle ambasciate, nei saloni del Faubourg. Laonde, se volessi rapirvelo, non avrei permesso a dimandarvi.
— Ma che volete voi dunque?
— Che me lo serviate in una festa, a casa vostra, alla mia prima richiesta.
— Sarà ciò subito?
— Non lo so ancora. Ciò dipende...
— Accetto.
— Infrattanto, calma e silenzio. Come vai tu, figliuola mia bella, adesso?
— Meglio, dottore. Ma Sergio...
— Che vuoi tu che io mi faccia di un poeta, di un giornalista, in un’epoca in cui ogni monello politico e morale, sciorina giornali, ed in cui il miglior poema è il listino della Borsa? Ve lo dò come buona mancia, va! Ma, ve lo ripeto, punto d’imprudenze, e non forziamo il tempo.
— Sia.
Il dottore baciò Augusta sulla fronte ed uscì.