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— Tu ài ragione.

— Voi dovrete conoscere la storia di quel banchiere tedesco, che — avendo ricevuto Carlo V in casa sua — allumò il fuoco della camera imperiale con le lettere di cambio firmate da S. M. e ne intrattenne le fiamme con legno di cannella. Io farnetico di Carlo V. Gusto forte il banchiere. Se vi spaventate, gli è ancor tempo di ritirarvi.

— Tu credi, bella mia?

— Ciò vi riguarda. M’àn narrato che la nobiltà del vostro paese vive tutto un anno di un uovo — e si nutrisce di eccellenza! Io, io arrabbio per un beefsteak, il quale sanguini una miniera di Siberia. Ed al dessert, se l’è d’uopo... l’aspide di Cleopatra in un piatto di fichi di Corinto! Dite, siete voi pronto a tutto, signor duca? Nella coppa che io allestisco vi saran forse delle perle fuse... ma chi la cionca, si sente dio di poi. Dio per un’ora! Vi par desso corto e troppo caro?

— Morella — rispose il duca con una voce resa solenne dalla disperazione o dall’estasi — mi dimandassi tu i capelli di mia moglie, io glieli taglierei per farne un cuscino ai tuoi piedi.

Morella, di un colpo di mano, sciolse le sue treccie, ed inondò il duca di una capigliatura che avrebbe meritato di essere allogata fra gli astri — come la chioma di Berenice. Il contatto, il profumo, l’elettricità di quelle ciocche febbrili fecero abbrividire il duca — che le baciò e vi si soffuse.

— Guarda, se io ò bisogno dei capelli di tua moglie — disse ella. D’altronde, essi non son mica dello stesso colore che i miei — soggiunse Morella ghignando — per farmene delle false trecce.

— Tu ài messo le tue condizioni, Morella — rispose il duca. Io le accetto. Ascolta le mie, adesso. Esse si riassumono in tre parole; io sono geloso! Tu mi divorerai, senza dubbio; ma forse pure io ti ucciderò.

Morella saltò impiedi e si strinse la testa del duca sul petto.

— Tu sei un uomo! — gridò dessa. Io ti amerò.

Il duca impallidì, e si alzò a sua volta, attirandosi Morella nelle braccia.

Ella si svincolò, facendo un salto indietro, e disse con solennità: