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In quello stato di nausea morale e fisica, il possesso di Morella sembrò al duca una resurrezione. Usciva dalla tomba delle sue cortigiane da stufa, alla pelle rinzaffata, cui era mestieri osservare ad una luce sapientemente moderata, e menar ventre a terra, senza contare le tappe.

Qui la parte cangiava.

Il duca amava.

Fin là, lo avevano amato e carezzato.

E’ si ritrovava uomo adesso, giovane, al suo posto. L’amore aveva delle angosce e delle delizie vere, delle esigenze spontanee: il fiore dava il suo olezzo e non andava a cercare una gocciola di essenze agli alberelli del profumiere.

Morella rilevava da lui.

E poi, che di giovinezza, che di freschezza! Come quelle labbra dovevano rimbalzare! Come quei denti dovevano mordere ed infiltrar nella piaga della scintilla degli iddii! Come quegli occhi insolenti provocavano, tramandavano un effluvio di voluttà, si spegnevano dolcemente nel languore dell’amore, scoppiettavano una bufera insensata! Quale féerie quella maga andava dessa a svolgere?

Qui l’antitesi esisteva.

Morella resisteva.

Ella sapeva ciò che portava in quella comunione d’incanti.

Bisognava conquistarla, perchè la non si dava: la s’insorgeva. Ella poteva scegliere. Il principe di Lavandall non era forse ai suoi piedi?

Per Morella, Balbek entrava poi nei misteri di quella vita parigina, di cui aveva letto tante cose nei romanzi, udito tanti racconti mostruosi di grandezza e d’infamia. Quel precipizio del mondo opaco parigino à delle vertigini di angelo, delle stigmate di demonio, ove il malescio soccombe, il forte si ritempera e dice, rialzandosi: ò vissuto!

L’avvenire resta solcato di questi fulmini. L’anima à fissato i suoi vaneggiamenti. Per Morella, Balbek — quel guardia del corpo smarrito — riceveva il suo battesimo del mondo. Faceva le sue prove per divenir rosacroce. Entrava nella fossa ai lioni.

Morella si apriva innanzi a lui come un abisso che l’assorbiva. Era il soffio del ciclone che lo menava via, o l’attrazione magica dell’amore che l’incendiava del suo alito?