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da una veste da camera di nero velluto, poggiava aperto un volume delle opere di Humboldt.

Ivan introdusse il dottore di Nubo ed avvicinò una poltrona.

— Prendereste una tazza di thè, dottore!

— Perchè no? Vengo d’asciolvere al Pavillon d’Henri IV, con una delle vostre vecchie conoscenze, principe.

— Le mie conoscenze sono tutte vecchie oggimai, dottore. Chi dunque?

— Il conte di Perceval.

— Non è ancor morto?

— Lui morto? per chi lo prendete voi? È più giovane adesso che a trent’anni. Anzi, a quest’ora, tutta Parigi si occupa di lui.

— Parigi è ben amabile. Che à egli fatto? Si è ralligato agli Orléans? Sarebbe divenuto onest’uomo? È entrato ai gesuiti?

— Meglio, meglio che tutto ciò, principe. Io credo, tout bonnement, ch’e’ si eserciti la mano all’assassinio.

— Diavolo! — sclamò il principe. Cotesto debb’essere allora assai piccante.

— Io non conosco ancora tutt’i dettagli della cosa. Me ne informerò e ve li conterò un altro giorno. So vagamente ch’egli è implicato nel suicidio di un rat dell’Opera, cui intratteneva. Questa donzella si sarebbe suicidata per un poeta, un romanziere, un giornalista, qualche cosa come codesto — un tal Sergio di Linsac. In realtà, e’ pare che il conte di Perceval non aveva presa la ballerina che per sottrarle non so quali cambiali del marchese di Caboul.

— Il marchese... di Caboul!

— Già, il quale non è altro che il R. P. Buzelin, dello stabilimento dei gesuiti alla Rue des Postes — il convertitore dei RR. PP. nel mondo galante. Ora, io m’immagino, che il conte di Perceval à furacchiato la figlioccia per furacchiarle le carte, e che dà oggi alla bisogna il nome e l’aria di suicidio. Questo birbo di conte è uomo di spirito, diascoli!

— Proprio così — sclamò il principe ghignando.

— E’ sa che, in ogni cosa, il metodo è tutto. Ebbene, egli à trovato un metodo che converrebbe a non poche genti... oneste.