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— Il principe sta bene. Egli è uscito or ora a cavallo, e vi prega, padrone, di andarlo a raggiungere nello sboscato del lago.

— Non à detto altro?

— No, padrone.

Alessandro uscì, preoccupato.

Qualche minuto dopo saliva a cavallo.

Era una bella giornata in sul finire di maggio. Faceva ancor freddo come in febbraio a Palermo, ma la neve aveva fuso. Gli alberi delle foreste si coprivano di giovani foglie. Il sole svestiva le sue ultime nuvole e si alzava sereno e pomposo. Le viole smaltavano le macchie. Gli uccelli, disgelati, provavano melodie — per accertarsi che il freddo del verno non li aveva arraucati. Il cielo era puro, ma di un turchino grigiastro, ove una brezza tagliente ed uggiosa sforzavasi a connettere dei lembi di nuvole bianche.

Le bestie, magre e sporche, che aveano passato l’inverno negli stabbi, covavano i campi e la foreste di uno sguardo gaudioso, tosando qui un ciuffo di giovani erbe, decapitando là le cime degli arbusti. Il contadino, la contadina, sollecitavansi a dimandare alla terra la sussistenza del nuovo anno. Tutto spirava la giovinezza, la gioia, la pletora della vita che spandesi al di fuori. Un soffio di amore avviluppava la creazione, che sembrava palpitare e sorridere.

Un uomo solo trascinavasi quivi, tetro e freddo come le notti della Siberia: il principe di Lavandall.

Egli aveva legato il suo cavallo ad un cespo, ed erasi assiso sur un tronco di albero, alle sponde del lago.

Il lago azzurro corruscava, sotto i raggi del sole, come un monile di diamanti alle faci di una festa. Il principe contemplava il respirare delle onde; ma non scorgeva nulla. Imbaccucato in ampia pellicia, egli meditava, o piuttosto continuava il vaneggiamento che l’assorbiva da otto giorni. E’ non si accorse neppure dell’arrivo di suo fratello.

Il conte Alessandro, da che scorselo da lontano, accelerò il passo, discese da cavallo, ed avanzò verso il principe, gridando:

— Eccomi qui, Pietro.