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la testa alta squadrava la contessa. Il suo dolman di panno violetto, rattenuto sulla spalla sinistra da una catenella d’oro, aggiungeva un’aria marziale alla sua aria grave di vecchio e di aristocratico indurito. L’età avanzata non aveva curvato di una linea la sua persona, come l’esperienza non aveva fatto piegare l’inflessibilità delle sue idee. Teneva la sciabola attaccata alla cintura, che risuonava ad ogni movimento contro gli speroni d’argento degli stivali inverniciati, guarniti di astrakan, che gli arrivavano fin su del ginocchio. La sua bella barba bianca gli scendeva a mezzo il petto, armonizzando coi lunghi e ricciuti capelli. La commozione lo faceva pallido, e questo pallore prendeva una espressione di collera, sotto il riflesso di due pupille nere, accese dall’interna violenza. Gli occhi erano il dinamometro delle passioni del principe. Sua figlia aveva l’abitudine di leggervi entro la calma o la tempesta. Ella conosceva il carattere di suo padre. Più d’una volta questi due nugoli carichi di fulmine s’erano incontrati, ed avevano scambiato dei lampi.

— So, disse Amelia con voce ferma, perchè m’avete fatta chiamare. Che ordine volete darmi?

— Uno di questi due, rispose freddamente il principe: spazzate il mio palazzo dalla lordura che vi avete introdotta, o lasciatelo voi stessa.

— Gli antenati di quello che voi chiamate una lordura, rispose fieramente Amelia, erano conti, quando i nostri non erano ancora che semplici nobilucci. Il titolo di quei baroni data dal quinto secolo, il nostro dal sedicesimo. Essi lo tengono da Attila, e furono capi di bande guerriere; noi lo abbiamo dalla Casa d’Austria per servigi resi ad uno straniero, ad