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e linfatico, borbottava alcunchè di rauco e d’indeterminato, ma non aveva già quell’accento di collera che s’indovina nel brontolìo del Po e del San Lorenzo. Al di là, la roccia appesa e misteriosa che porta la cittadella, e sovrappiomba nel fiume. All’indietro, delle brune colline dai poggi di vigna, tagliati da burroni, lungo i quali s’arrampicano i casini, le osterie, i caffè, le case rustiche dai campaniletti rabescati; e più lungi ancora all’estremo orizzonte, in mezzo ad un vapore violaceo, dei punti cerulei come una manata di turchesi, i primi spalti dei Carpazii. Io scorgeva tutto ciò in una volta, con uno sguardo interno, che avrebbe abbellito ed illuminato la bottega d’un carbonajo, allorchè una vettura traversò il ponte, ed una testa, coperta da un cappello da generale, si mise fuori per guardarmi: era il conte Lamberg.

Fu visto e riconosciuto.

Non durò che un lampo. Una folla, che sbucava non so donde, si gittò sopra di lui, rovesciò la vettura, i cavalli, il cocchiere, lo trasse fuori, lo trascinò, l’uccise, gli tagliò il capo. Io aveva appena scôrto un uomo vivente che mi squadrava di un’aria burbera; un minuto dopo, vidi una testa pallida ed insanguinata in cima ad una picca. Un brivido percorse tutta la città. La folla armata di falci irruppe nella sala dell’assemblea. Il presidente balzò sul suo seggio, e con gesto da re, gridò:

— In nome della legge, vi ordino di uscire.

Le grida si spensero in un attimo, e quegli uomini insanguinati se ne andarono come pecore, senza rispondere una parola.

All’indomani, Moga batteva Jellachich a Pakozd,