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latra della forza. In conseguenza, il decreto del diritto non gli pareva legale. Ma per noi era più che legale.

Attendemmo per cinque giorni l’ordine della partenza. L’ordine non venne. La contessa mi disse: Non verrà mai.

Il capitano del 4.° squadrone diede il segnale.

Una mattina, un suono di tromba per la chiamata venne a destarci ad un’ora inusata. Gli appartamenti del colonnello sporgevano sull’immensa corte della caserma. Egli stava scorrendo la corrispondenza ed i giornali arrivati da Vienna, e brontolava forte. La contessa leggeva appo di lui i giornali ungheresi, e sembrava raggiante. A quella fanfara inattesa, il colonnello si alzò, e corse alla finestra. Aveva una berretta rossa sul capo, la pipa in bocca, delle pianelle e una zimarra da camera. Scendendo, prese uno scudiscio. E fu in questa guisa ch’e’ si presentò davanti il 4.° squadrone, già pronto e sul punto di mettersi in marcia.

— Cosa è codesto? gridò il conte Tichter, fulminando dello sguardo il capitano.

— Colonnello, rispose questi, ponendosi alla testa dello squadrone, noi partiamo.

— E dove andate?

— A Pesth, colonnello.

— Chi vi ha dato l’ordine della partenza?

— Il ministro della guerra, Lazzaro Meszaros.

— Non conosco i vostri pulcinelli io, ruggì il colonnello; sono il padrone del reggimento, ed esso non riceve ordini che da me.

— Colonnello, v’è un padrone di tutti, re per noi, imperatore per voi. Egli ha approvato il decreto del 20 agosto.