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acclamazioni della folla divennero frenetiche. Per la folla, come pei bambini, il grido è una forza. Petöfy lesse allora la sua poesia.
Petöfy aveva appena ventiquattro anni, una piccola statura, un viso magro rischiarato da due occhi neri e risplendenti, l’aspetto fiero. Si lasciava accostare difficilmente. Vestiva da contadino e non portava mai cravatta. Tutti lo conoscevano; lo si amava e lo si detestava eccessivamente. Egli era fiero, brusco, brutale nella sua franchezza, democratico intero ed assoluto, coraggioso fino alla storditezza. Bem, più tardi, lo prese per aiutante: erano degni di essere amici. Vi racconterò in seguito come morì. La poesia che egli lesse è intraducibile. Abbiatene il riflesso — il riflesso del sole delle regioni boreali nell’inverno.
Della patria al santo appello,
O Magiari, orsù sorgete;
Esser schiavi od esser liberi
È in poter di voi: scegliete.
Nel tuo nome, o Dio degli Ungari,
Noi giuriamo,
Noi giuriamo
L’empio giogo di spezzar.
Questa strofa fu la miccia che mette il fuoco alla mina. Una voce immensa, la voce di tutto un popolo, scoppiò nel grido: Lo giuriamo!
Sì, essi lo giurarono, e tennero il giuramento dato.
Petöfy continuò:
Fummo schiavi. In servo avello
Gli avi dormono. A noi spetta
Di giurar sui loro tumuli
E compirne la vendetta.