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tava le lagrime negli occhi e lo scoraggiamento nel cuore. Ogni passo che facevo verso l’ovest, era un passo nell’esilio, ed io sentiva le fibre della patria cader una ad una dal mio cuore, come si strappano i petali da un fiore. Venne la notte. Mi lasciai cadere sopra un solco di granturco tagliato, e piansi.

Un solo avvenire si apriva ormai a me dinanzi. L’accettai senza esitare. Era dar mano ad una creazione. Presi il nome che porto ora, e mi feci soldato. Entrai in un reggimento d’ussari, a Vienna. Fui inviato in Boemia, poi in Italia, poi in Polonia. Vi passai quattro anni.

La rivoluzione del 1848 mi trovò in Galizia sottotenente, promosso soltanto dalla vigilia.


III.


Il mio reggimento aveva cangiato tre volte di colonnello. L’ultimo era un tedesco, il conte Ferdinando Tichter. Io era segretario del suo predecessore, un ungherese; il conte austriaco desiderò che restassi a quel posto. Il colonnello Tichter mi spiacque irremissibilmente fin dalla prima ora. In ricambio, amai sua moglie fin dal primo minuto.

Sei mesi dopo, ci arrivarono, una dietro l’altra, le notizie della rivoluzione in Italia, della rivoluzione in Francia, della rivoluzione a Vienna. Non saprei dirvi le impressioni opposte, che questi turbini equinoziali produssero sopra il reggimento interamente