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dei tuoi vagabondi sfrontati, dei tuoi mendicanti che s’impongono come i gabellieri.

Ed il marito rispondeva:

— Pazienza, amor mio, una notte è presto passata. Non è colpa mia. Che posso farci?

Io mi stesi sul canapè e soggiunsi:

— Ebbene, don Ciccio, amico mio, animo, su, mio caro, fammi dare un letto.

— Non vuoi cenare?

— Non mi oppongo a ciò, per non mancar di cortesia verso la signora. Una fetta di mortadella, una frittata, un bricciolo di cacio, un elefante, due beccacce, un fagiano ai tartuffi.... che so io! Spiega al vento tutte le tue virtù, e presto, non importa che, cui dividerò con i miei Albanesi, e che ci addormissimo. Abbiamo fatto non so quante miglia in quindici ore di marcia.

Preso fra due fuochi, don Ciccio restò neutro. Infine, la signora, vedendo la mia determinazione ben ferma di non andarmene, si sacrificò, sprigionando dal petto un sospiro simile al gogolare del tacchino.

— Sta bene, signore. Li volete altresì alla vostra tavola, i vostri Albanesi?

— Senza alcun dubbio, signora. Io onoro codesti due uomini, come voi onorereste il vescovo di Cosenza, se venisse a dimandarvi ospitalità.

Lauretta scomparve. Io respirai. Credevo che la cena arrivasse. Lauretta venne con un paio di pianelle, s’inginocchiò ai miei piedi e si pose a cavarmi gli stivali. In quei paesi non si comprende che si possa cenare con gli stivali ai piedi. Lasciai fare. Ella usci di nuovo e ritornò, portandomi questa volta il mio cappello, che io aveva gettato nell’anticamera.