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IV.


Io andavo in casa di un amico — un liberale, un repubblicano di ieri l’altro.

Don Francesco era uno dei caporioni del paese ed abitava una specie di palazzotto, all’estremità della cittadina, sulla via scoscesa che conduce al mare. Arrivati dinnanzi la sua dimora, le mie due guardie fecero un vivo strepito col martello di bronzo della porta e con i calci dei fucili. Quella bella palazzina, tutta bianca, dalle persiane verdi e dai balconi di ferro bellamente intrecciati, tremò sotto i picchi. Un allocco, messo in croce sulla porta, scossa la testa e le estremità delle ali, come per dirci: «Andate a farvi impiccare altrove!» Una dozzina di cani risposero all’appello. Nel tempo stesso, un lume passò per un seguito di appartamenti interni e si fermò dietro una finestra che sovrastava al nostro capo. La persiana si aprì dolcemente ed una voce stridente, scappando fuori d’un viluppo di pezzuole, dimandò.

— Chi è là?

— Amici, rispose Spiridione, poggiando il fucile sul lastrico.

— Amici, amici! riprese la medesima voce, accompagnata da una piccola tosse secca. Gli amici, a quest’ora, e per i tempi che corrono, hanno un nome.

— Sì, risposi io, di’ a don Francesco che il suo amico Tiberio, marchese di Tregle, è qui.