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ganti conoscevano tutti i sentieri, che non son mica i sentieri di chiunque, e pur nondimanco sono i più belli. Ond’è ch’egli è incredibile quanti precipizi di queste montagne varcammo, quanti abissi costeggiammo sdrucciolando sur una terra sminuzzolata, quanti picchi scalammo, quante coste a scesa rapida e quasi perpendicolari scendemmo, quanti folti squarciammo a traverso felceti alti come selve cedue, quanti torrenti spumosi come vino di Champagne valicammo, quante corremmo di praterie belle come un paesaggio di Croop, di vigneti splendidi, i di cui frutti avrebbero fatto credere ai tropi della Cantica dei Cantici, di olivi grossi come vecchie querce dalle foglie verdi, sbiadite, verniciate da un lato, da un altro vellutate come il labbro superiore di una fanciulla, infine, quanti questa cavalcata di quindici ore ebbe di accidenti imprevisti, di varietà, di sorprese, di quadri incantevoli, di estasi, di pericoli..... Io mi sentiva trasportato. L’uomo politico era di già restato al Parlamento, dopo il guazzabuglio del 15 maggio; l’insorto era restato nel fortino di Campotenese; qui, io mi trovava poeta.

Il mio cavallo calabrese aveva della capra: esso scivolava come un pattinatore, si arrampicava come un gatto; si faceva piccolo, si raggroppava, si allungava, passava dovunque. I suoi garretti di acciaio si tenevan fermi sopra un viottolo stretto come un filo di refe, sul labbro di un burrone, a cinquecento piedi di altezza. Era davvero un cavallo fazioso, avvegnacchè uscisse dalla scuderia di un vescovo.

Ma per bella che fosse la natura, per palpitante che fosse la situazione, ad una certa ora l’appetito si risvegliò.