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della mia disgrazia La sentenza non ammetteva appello. Eppure mio padre taceva ancora. Il presidente, stanco di quel silenzio, fece un segno. I gendarmi misero la mano sulla mia spalla, e furono per condurmi nel cortile ove si doveva eseguire la condanna.

— Fermatevi, gridò alla fine mio padre, facendo uno sforzo supremo sopra sè stesso.

Il presidente fece un altro gesto, le mani dei gendarmi mi lasciarono libero.

— Voi cercate da tre anni colui che punì, e poi uccise il colonnello conte di Schaffner?

— Vi sono mille fiorini di premio a chi lo darà in mano alla giustizia, rispose il presidente.

— Ebbene, continuò mio padre, l’uomo che cercate sono io.

— Voi?

— Io stesso; ma io sono nobile, io sono conte. Voi non potete infliggere la pena del bastone a mio figlio. Mi abbandono al patibolo pel mio delitto; pago l’ammenda per mio figlio.

Un istante di silenzio seguì, momento terribile per tutti, d’agonia per mio padre, di terrore per me. Egli aveva rivelato il suo vero nome. Il presidente ed i cinque giudici scambiarono alcune parole fra loro, a voce bassa. La loro deliberazione fu breve, pure ci parve durasse un secolo. Finalmente il presidente disse:

— L’esecuzione della sentenza verso quel giovane non ammette dilazione. Il caso non è previsto dalle nostre leggi. La sentenza avrà dunque il suo corso. In quanto all’assassino del conte di Schaffner, egli sarà inviato alla sede sicula, ove il delitto fu commesso, e consegnato alle autorità locali.