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pure. Era forse dubbio se io avessi potuto o no esercitare questo diritto in qualunque altro sito, ma era vietato a tutti di cacciare nei boschi riservati. Io aveva violata la legge.

Tradotto l’indomani alle ott’ore dinanzi il tribunale signoriale, composto di cinque giudici, di cui il principe Nyraczi aveva scelto il presidente, ad otto ore e mezza ero stato giudicato e condannato — condannato a ricevere ventiquattro colpi di bastone. Essi avevano aggravata la pena, non avendo diritto di condannarmi che a dodici colpi. Poco importa: il numero non faceva nulla. Il pensiero del dolor fisico, neppure.

Io mi aspettavo di esser condannato ad una ammenda, e così pure mio padre. Lo scorgevo in un angolo della sala del tribunale, e non ho mai veduto una faccia umana decomporsi in quella guisa e così rapidamente. Forse il suo viso rifletteva lo sfacimento del mio. Quella pena era il disonore, era la mia morte morale. Gli occhi di mio padre, iniettati di sangue, lanciavano folgori; le sue labbra, livide e gonfie, tremavano. Tutti i tratti della sua fisonomia s’increspavano come sotto una scossa elettrica. Balbettò delle parole, che non furono comprese. Le sue narici allargate lasciavano passare una respirazione a sobbalzi, tumultuosa. Temetti un momento che fosse fulminato da un colpo d’apoplessia.

I giudici, osservando la trasformazione terribile di quella bella testa di vecchio, i cui bianchi capelli si rizzavano sulle tempie, si fermarono a fissarlo, attendendo che potesse riacquistare la parola. Sembrava evidente ch’egli aveva a dire qualche cosa. Si fece silenzio. Io cadeva accasciato sotto il peso