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Quando tutta l’Ungheria risentì come una specie di scossa elettrica alle scintille-folgori delle strofe di Petöfy, io balzai come gli altri, mentre il viso dell’Austria allibiva dal pallore dello spasimo. Domandai: Chi è codesto possente, che muove le capanne ed i castelli, le capitali ed i villaggi, le fanciulle ed i soldati? Mi risposero: È il figlio di un oste-beccaio, un istrione mal riescito!

La mia anima scoppiò.

Io poteva arrivare a tutto.

Mio padre indovinava la vita interna del mio spirito. Le rughe del suo fronte si oscuravano. Egli sapeva che mi aveva serrato al collo la gogna del plebeo, fino a quando egli sarebbe vissuto, e forse anche dopo la sua morte, se la degradazione, che seguiva la condanna, si fosse riflessa sulla sua discendenza.

Quella domenica, io ronzava sulla piazza del villaggio, fra le quattro chiese che si guardano e si fanno un po’ di smorfia: la Greca, la Cattolica, la Protestante e la Sinagoga. Un cavallo, montato da una ragazza vestita d’una amazzone verde, il viso nascosto da denso velo, passò di galoppo, e m’inzaccherò. Due altri cavalieri la seguivano: il principe di Nyraczi ed un domestico.

I villaggi d’Ungheria sono una specie di Venezia. In mezzo ad ogni strada, corre, o piuttosto s’impantana una pozzanghera, un ruscello, una cloaca, che si traversa sopra dei ponti fissi o mobili, ed ove sguazzano delle oche, delle anitre e dei porci mostruosi. Delle belle vacche bianche, civettelle, si fermavano sulle rive, e stupivano di vedervisi così brutte. La giovinetta, che mi aveva involontariamente coperto di quel fango infetto, era la figliuola del principe, arrivata da un collegio di Vienna il giorno innanzi, per passar le