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kutsk, vale a dire, il disonore per Cesara e per me la morte sotto lo knut.

I progetti del nostro salvamento s’incrociavano: approdare all’America Russa ed andare incontro all’incognito dei Samoiedi; risalire l’Anadyr, traversar le montagne e sboccare verso il mare di Okhotsk, al golfo di Penjinsk, recarci alle isole Aliutine, nel Kamtsciatka e di là, come Benyowski, salpare verso Canton; passare il verno alle sponde dello stretto di Behring ed attendere l’anno prossimo; o recarci nell’America russa con gli Tsciuktscias che vi vanno a cercar pelliccerie... Tutto ciò era tenebre, dolore, disperazione. Infine, io mi decisi a traversare lo Stretto in una baydara indigena, barca costrutta di costole di balena e pelli di foca, ed approdare più al sud che potessi del Capo del Principe di Galles. Ethel era pronto a condurmivici, contentandosi, per tutto prezzo, di uno dei miei revolver e di un po’ di polvere. Io potevo condurre meco Metek, la tenda, le renne, i cani, la slitta: quattro o cinque di quelle barche si mettevano a mia disposizione. Non avevo che un centinaio di leghe marine da navigare. I nostri sguardi non si distaccavano più dal mare. La mia vista aveva acquistata un’acuità incredibile. Io comprendevo il linguaggio di ogni fiotto, di ogni soffio, di ogni onda, di ogni cangiamento di tinta d’ombra e di luce. Il giorno della partenza era fisso al 7 agosto. I fagotti erano allestiti. La rassegnazione era caduta sopra di noi come il coperchio di una tomba. Lo scorruccio ci annichilava l’anima. Io cominciavo a dubitare dell’intervento divino nella vita del mondo, che la mia religione insegnavami.