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bile entrava, a sua volta, anch’essa in furore, si metteva in moto di un sol pezzo, di un sol tratto, brontolava sordamente e poi terribilmente, si screpolava, si fiaccava, e delle montagne, sollevate dalle onde, portate sul loro dorso, solcavano lo spazio, spruzzavano verso il cielo come raggi. Il flutto corrucciato del suo lungo imprigionamento, del suo lungo silenzio, della sua lunga impotenza, era terribile adesso ed invadeva lo spazio, borbottava, gridava, correva, rovesciava, rompeva, polverizzava, urtava, distruggeva. Lo spazio illimitato diveniva un campo di battaglia, ove la nebbia che si sollevava un po’ sul ghiaccio, teneva luogo di fumo. Uno spesso vapore bleu innalzavasi allora dal fondo delle acque, come il fiato di un mare, che rinveniva dall’asfissia. L’orso bianco esso stesso era esterrefatto. Tutto si torceva sotto il dilaceramento. La creazione fantastica dell’onda, sorpresa ed immobilizzata nella vertigine che le davano i venti e le forze cosmiche, questa creazione si annientava nello scompiglio della battaglia. Dei pilastri di vapore turchino indicavano le irreparabili ferite dei campi di ghiaccio continuo, cui lo sguardo contemplava in lontananza. Si sarebbe detto che le valli delle Alpi si gonfiassero e gittassero lungi di fuori le montagne che correvano l’una sull’altra.

Il sole restava adesso in permanenza all’orizzonte — per cinquanta giorni — ma si sollevava a poca altezza, riscaldava appena. Il suo disco aveva la forma ellittica e lo si poteva fissare senza esserne abbagliati. Verso l’ora che doveva essere la notte, esso si abbassava un cotal poco, poi, due ore dopo, risollevavasi sull’orizzonte, tanto più chiaro quanto faceva più freddo, e la natura intera si apriva ad un sorriso fecondo.